Fiat e forme di neo-colonialismo di ritorno, dove gli spazi da conquistare in ogni modo, meglio il più lucroso per l’azienda, sono i nostri, siamo noi. Doveva succedere. Ieri in treno un tizio, rifacendosi a certa filosofia rupestre, affermava che: ogni male fatto torna indietro. Ciò che noi abbiamo permesso si facesse nel mondo, senza troppo curarcene, ora lo paghiamo sulla nostra pelle. Qualcuno ha scoperto che fa male, ma sono comunque pochi.
Osservando l’esempio della Fiat a Detroit, come qui in Italia, vediamo svilupparsi un modello economico che non è di certo nuovo, ma che risulta raffinato nelle sue forme, che si fanno sempre più “sofisticate” e stringenti, in un’assenza totale a livello istituzionale di forme di protezione e controllo per i lavoratori e i loro diritti.
Oggi un’azienda cerca spazi non solo in paesi emergenti, dove più facile è dettare legge per ovvie ragioni, Marchionne propone un sistema che presto attecchirà: si opera in un contesto di profonda crisi (Detroit, l’Italia), si investe: meglio se con i soldi dello Stato, più che con quelli dell’azienda – e se va male chi ha pagato quell’investimento, i cittadini? – quello stesso Stato che poi non si interessa di come e cosa farà l’azienda; tanto piuttosto che niente è meglio piuttosto. Questo è l’adagio pericolosissimo (lassismo più per incapacità di affrontare il problema alla radice che non per pigrizia – mettiamoci in testa che la classe dirigente, che noi abbiamo voluto! è altamente incompetente, qui in Italia come in Europa, come oltre oceano), su cui si appoggia chi avvalla queste operazioni. E su cui cerca conforto la maggior parte dei lavoratori il: piuttosto che niente… salvo poi scoprire che su quel piuttosto (finché dura poi) non è possibile costruire il futuro. Non sono modelli pensati per la crescita di un paese, di una regione, di una città, se domani va male, o anche solo benino, l’azienda alza le tende e sul territorio non resta più niente.
E veniamo proprio a quei lavoratori che pur di lavorare preferiscono il piuttosto che. Qui troviamo l’elemento geniale su cui punta il neo-neo-colonialismo economico. Per i lavoratori l’azienda non è vista come l’antagonista, o è tale solo per una minoranza. Dividi ed impera è il motto alla base di chi detta le regole: o accettate le nostre condizioni o cazzi vostri, andiamo dove più ci conviene. E chi dice no (sempre un’esigua minoranza) si trasforma nel nemico degli altri operai, mentre chi dice sì diventa il nemico di quella minoranza, e ogni conflittualità si risolve interamente in una guerra tra poveri che non tocca l’azienda, né la riguarda. Pro e contro, gli uni contro gli altri.
Dobbiamo accettare se no che si fa? Non ci sono alternative, non ci sono proposte, né altre vie percorribili. Ecco il punto dolente, in tutta la sua evidenza. Ecco palese l’incapacità di porogettare il futuro, come gestire una crisi, o sviluppare un paese, da parte delle istituzioni a tutti i livelli, ecco la debolezza di un’università (non solo per colpe di questa) che non è centro propositivo, completamente scollegata dal mondo del lavoro, al collasso in fatto di fondi per la ricerca (ma è solo colpa dei vari ministri della pubblica d-istruzione che negli ultimi ventanni si sono dati il cambio al governo?). Ecco anni e anni di: chi se ne frega; di: faccio i miei interessi, coltivo il mio orticello, che ha imperato in Italia.
Tornando alla guerra tra operai, è chiaro che vinceranno i sì, chi accetta le nuove regole pur di lavorare, sperando che le cose più o meno vadano per il verso giusto (non è mai così). Se le cose vanno male, se i Visitors aziendali vanno a colonizzare un altro pianeta, si capisce che quel piuttosto che niente era proprio niente.
Sintetizzando: l’azienda si inserisce in un contesto di “disperazione”, impone le proprie regole e se va bene resta, se no ciao. E se va bene, va bene solo per l’azienda, mentre i lavoratori hanno fatto un salto indietro di cento anni rinunciando a diritti, salari, previdenza sociale, pensioni, e non solo loro. Cristallizzato il modello, accettate le nuove regole (non è vero, come qualcuno vuol far credere, che si tratterà solo di una deroga temporanea a diritti e salari, finché l’economia non ricomincerà a tirare), chi ne pagherà veramente le spese saranno i nostri figli. La scarsissima lungimiranza di un paese (istituzioni e cittadini) è il male maggiore in tutto ciò, non riuscire a capire che non si sta costruendo ricchezza, né delle basi solide su cui impostare l’economia futura. Non si sta costruendo, ma si sopravvive e anche male, parecchio male.
Ora, come di consueto, l’angolo del film, per tirarci su. Due film su sindacato, diritti e crisi, giusto per alleggerire: Fist con Stallone e, in tema di industria automobilistica, Gung-Ho Arrivano i Giapponesi, di Ron Howard, protagonista Michael Keaton
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