Qualche tempo fa ho letto il racconto di Qiu Huadong “la città di sabbia”.
E’ forte la sensazione che sia la città a strutturare il ritmo, gli umori e il senso profondo non solo del racconto, ma della vita e delle scelte dei personaggi che vivono nella città. In Qiu Huadong si parla di Pechino (ma il discorso, secondo me, ha validità universale, ossia vale per Pechino come per New York o Milano), e i suoi personaggi sono giovani senza soldi, artisti prevalentemente: un pianista, una pittrice e poi vagabondi, perdigiorno, la solita fauna.
Mi ha colpito il fatto che come da titolo “la città di sabbia” ogni palazzo, ogni strada, ogni incontro, ogni vita, ogni personaggio, persino il tempo, sia evanescente e privo di forma esattamente come la sabbia, e che tale caratteristica sia effetto di una città fluttuante e in continua trasformazione. Esiste un sotterraneo collegamento, un vincolo, tra la forma della città e la vita di chi ci abita. Risulta impossibile non assecondare i mutevoli capricci della città, che si riflettono sulla vita dei suoi abitanti e non solo a livello “fisico” – di qui non posso più passare con la macchina, perché hanno trasformato la strada in un senso unico – ma, come dicevo, più in profondità: sogni, scelte, obiettivi, amicizie e, chiaramente, l’amore:
“Perdere l’amore? E cosa c’è di strano – pensai. In questa città è tutto un vorticare di sabbia, intorno solo castelli di sabbia, tutto è effimero ed irreale”.
Tentare di opporsi a questo moto convulso e inarrestabile è possibile, ma probabilmente inutile, alla fine ogni sforzo sarà vano. Eppure, se il protagonista di questo racconto non ha trovato una via di fuga, beh, ha trovato una personale forma di vendetta nei confronti della città. Una vendetta evanescente esattamente come la sua vita di sabbia in una città di sabbia.
“mi sembra che Pechino sia una città di sabbia. Continua ad allargarsi, a espandersi circolarmente. Tutti i nuovi edifici che si stanno innalzando sono irreali: gli do un colpetto con il dito e i grattacieli cadono giù uno dopo l’altro come pezzi del domino”
Seppure confinata nella sua testa è una forma di lotta gratificante, ed in fondo lo si può capire. A chi non piacerebbe fare lo stesso, un semplice gesto per fare piazza pulita e, successivamente, focalizzare nella propria mente uno spazio vuoto da ricostruire, reinventare, uno spazio carico di nuove possibilità, persino di un barlume di speranza. Uno spazio vuoto in cui poter respirare e sentirsi finalmente liberi.
Di sicuro, anche si in una forma diversa, ha pensato lo stesso Basquiat, lo so perché ho letto il bel post che a questo artista ha dedicato Scarlett. Ecco cosa disse Basquiat “Voglio che tutti questi palazzi mi crollino addosso in questo punto esatto. Amico io odio New York, ti toglie l’energia”.
Curioso, ma in fondo la vita di ognuno di noi non è che una sottile linea in una rete di relazioni invisibili che passa attraverso il tempo e le distanze (fisiche, culturali, di sesso ecc.) e che probabilmente si muove con maggiore coerenza e velocità in uno spazio potenzialmente libero e vuoto (l’autoconsistenza senza ostacoli del Sutra della ghirlanda).
“Tesi il pollice e il medio, mirai in direzione del cielo notturno e colpii. Sentii il fragore di tutti quei palazzi che cadevano uno dopo l’altro e assaporai una gioia che aveva molto a che vedere con il gusto della vendetta. E’ una città di sabbia”
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