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Archive for Maggio 2008

Post di servizio: per Acrimonia

Poi però devi dirmi a cosa assomiglia l’avatar, non vorrei andare in giro con qualcosa che evoca equivoche immagini.

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Al capoufficio/datore di lavoro becero: “amico, tu da una natura di merda sei riuscito a distillare il massimo grado di stronzaggine possibile, sei talmente stronzo che dovresti essere esposto in fiera come un prodotto raro, o in un museo come opera d’arte, testimonianza imperitura dell’idiozia umana e della fallibilità della natura”

 

Al vigile che ti mette la multa in quei tre nano secondi in cui hai lasciato la macchina fuori dalle strisce blu, perché non ci sono parcheggi liberi: “ma voi nascete così, oppure ci diventate dopo aver subìto serie turbe emotive?”

 

A lei/lui quando parlano a ripetizione, producendosi nei discorsi più inutili che orecchio umano abbia mai ascoltato: “baciami, così la pianti di ciarlare!”

 

Alla zia che vedi solo a Natale e che nonostante tu sia prossimo alla pensione continua a riempirti di baci appiccicosi “mai sentito parlare della mononucleosi e dell’herpes? Io li ho entrambi, fai tu se ti conviene ancora baciarmi”. Alla stessa zia che ripete fino allo sfinimento “me lo ricordo quando era uno scricciolo alto così, ma quanto sei cresciuto”, “zia il tempo passa, se ti guardassi più spesso allo specchio te ne saresti (drammaticamente) accorta anche tu”. Questa io non la direi mai perché mi accorgo, quando vedo i figli delle cugine di mia madre (credo di poterli chiamare nipoti, ma non me ne intendo in fatto di gradi di parentela), di pensare (ma non lo esterno mai): cacchio come sono cresciuti.

 

Lui: “cara, ti ho sposata solo per avere qualcuno che d’inverno, nel cuore della notte, quando mi viene quel certo languorino, si alzi dal letto al posto mio per prepararmi un tramezzino, così che io non debba prendere un sacco di freddo”.

Lei: “caro, ti ho sposato solo perché avevo bisogno di qualcuno che se ne intendesse, ed ogni tanto portasse la macchina a fare la revisone ed il cambio dell’olio”. O in alternativa “caro, ti ho sposato perché ho sentito dire che il sesso fa male, con te non corro pericoli”.

 

All’amico con gli stivali di pitone, all’amica che mette quella gonna che proprio non le sta, e che ti chiedono “che te ne pare?”, “è in momenti come questi che preferirei essere una talpa e non vedere alla luce del sole”

 

All’amico/a che si presenta o telefona sempre nei momenti meno opportuni (e tutti hanno un amico/a così) e che prima di parlare premette, non so se con faccia tosta o spudorata incoscienza “ma ti disturbo?”… “sì!”.

 

Alla cameriera carina, che è stata così gentile da portare ogni piatto con un sorriso stampato sulle labbra: “vorrei lasciarti di più di mancia, ma non vorrei che tu pensassi che lo faccio perché ti credo una puttana o roba del genere; vorrei per una volta sentire il suono della tua voce che modula le sillabe del mio nome, non solo quelle dei piatti del giorno sul menù; vorrei che anche uno solo di quei tuoi sorrisi fosse stato sinceramente ed esclusivamente per me, roba mia; vorrei poter essere la persona che ti massaggia dopo che per tutto il giorno te ne sei stata in piedi a correre e a farti vomitare addosso ordini da gente maleducata; vorrei essere l’ultima persona che vedi prima di addormentarti e la prima quando ti svegli; vorrei che il ricordo di me, in qualche modo ti aiutasse a sopportare le giornate di merda. Vorrei essere in grado di dirti qualcosa di più intelligente di tutta ‘sta menata, ma se fossi intelligente probabilmente non starei qui a sparare banalità facendoti perdere tempo, mentre tu devi lavorare… lo posso avere il tuo numero? Beh, dimmi almeno come ti chiami… [ed io mi fermerei qui, ma niente di più facile di trovare qualcuno che aggiunga] … come no? Con quello che ti ho lasciato di mancia”, “con quello che mi hai lasciato di mancia al massimo posso dirti la lettera iniziale del mio nome, il resto, dato che hai un sacco di fantasia e tempo da perdere, inventatelo tu”.

 

All’ostetrico/a che ti ha fatto nascere “ma dovevi proprio tirarmi fuori così presto? E non basta, mi sculacci pure, ma che ho fatto di male? Tutte quelle voglie non erano responsabilità mia, se le inventava la mamma. Doc. vaffa!”

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Per Turner [1775-1851] lo spazio è estensione infinita, dinamicamente sconvolto da grandi forze cosmiche, perciò le cose che in questo spazio si trovano vengono coinvolte in vortici d’aria e turbinii di luce, finendo per essere assorbite e distrutte nel gorgo del moto universale. È un dinamismo che sfugge al controllo della ragione, che può rapire l’animo umano o sgomentarlo. Turner è grande interprete di ogni sollecitazione emotiva, il suo intento non è quello di rappresentare il mondo esterno, quanto di esprimerne il “sentimento” attraverso la luce e gli effetti della luce (costruita su pennellate dense e increspando il colore sulla superficie della tela) fino a trasfigurare il paesaggio, fino ad offuscarlo, fino a trasformarlo in una visione onirica. [sotto: pioggia, vapore, velocità; 1844]  

 

 

Ecco un lapidario, quanto acuto, commento su Canaletto [1697-1768] fatto da  Owen McSwiny “egli eccelle nel dipingere le cose che gli capitano sotto gli occhi”. Spesso rapiti dall’insieme della veduta, non si coglie la cifra più autentica della pittura di Canaletto ossia come egli strutturi le figure, come con pochi tocchi di pennello non solo le renda coerenti e nitide (la luce sovente ha qualità di nitidezza e splendore nell’opera di Canaletto, con ombre invece marcate utili a modellare gli edifici) ma anche vive. Attento osservatore di ogni classe sociale di Venezia, Canaletto dimostra così autenticamente, e molto più intensamente che non solo nella rappresentazione della scena in cui le figure si muovono, di essere uomo di “origine civis venetus”.

Canaletto ricompone un paradosso nelle sue tele. Spesso le vedute non sono fedeli dal punto di vista topografico, il pittore perciò sceglie un soggetto e poi lo ricompone, lo riarrangia magistralmente secondo i suoi obiettivi, e così facendo (ecco il paradosso) egli ottiene un quadro straordinariamente realistico, “vero”.

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Che se il premio nobel americano non fosse morto e sepolto, ci sarebbe da equivocare su di un titolo del genere. Ok, non voglio farne una malattia, voglio dire, è già il secondo post che dedico alla scrittrice siciliana, credo che dopo questo la parentesi si possa considerare chiusa. Oggi dalle mie parti ha piovuto, ha piovuto proprio bene. Ho sentito al Tg regionale che l’istituto nautico Morosini di Venezia, ora scuola militare, aprirà anche alle ragazze, non c’entra nulla ma mi andava di scriverlo. O meglio, è uno dei due elementi che hanno caratterizzato la mia giornata. L’altro è il mio rimuginare sull’intervista a Melissa. Una domanda in particolare mi ha dato il tormento: qual è stato il libro più triste che hai letto? Riferito a me, ci ho pensato ma non mi è venuto niente. Considero triste una trama che presenti una disfatta totale, roba da novelle di Verga per capirci. Ma nei libri che io ho letto il dolore è sempre stato ricomposto (persino sublimato) in forme di lotta, di dignità, di resistenza ad oltranza… mai di sorda accettazione, ed è questa che ti stringe il cuore, perché in essa (nella disfatta totale senza uscita, fosse anche e solo l’ultimo fiato per maledire l’universo) vedi un abisso infinito. Vedi il fondo del pozzo ed è tanto freddo quanto viscido. Chi vorrebbe che le proprie ossa riposassero là sotto?

 

Poi mi sono ricordato di Hemingway. “Per chi suona la campana” ha un finale potenzialmente triste, ma non è così, la categoria triste non può coincidere con gli eroi di Hemingway, ed in fondo la speranza è lì dietro l’angolo (peggio forse sarebbe Addio alle Armi, mah). Tra l’altro io sono costantemente alla ricerca di una Maria, mi ha lasciato secco il fatto che mentre lei e Robert Jordan fanno l’amore sentano la terra tremare. Niente terremoto, è una rarissima condizione avvertibile dai due amanti quando sono in compagnia del partner perfetto, quando emotivamente c’è totale abbandono e comunità d’intenti. Roba da romanzo, penserà qualcuno, io no. Ah, e poi mi ricordo questa frase che Pilar dice a Maria: “pochi uomini ti diranno la verità, le donne mai”. Hemingway era uno che con i dialoghi ci sapeva fare. Rischio però di andare fuori tema, di trasformare il post in un monologo interiore alla Pirandello (lascio fuori per rispetto Joyce). Dicevo di Hemingway e la storia più triste. Una volta lo scrittore scommise di riuscire a scrivere un racconto brevissimo, che però fosse anche pregno di significati. La storia l’ho sentita perciò non ho riferimenti precisi, e devo anche costruire a memoria il racconto, ma faceva così: “cedesi scarpe da bambino usate pochissimo”. Ecco, probabilmente questa è la storia più triste. C’è poco da aggiungere.

 

Sempre riguardo all’intervista di Melissa, vediamo cosa risponde Hemingway quando gli chiedono quale debba essere la migliore preparazione intellettuale per un aspirante scrittore (Melissa consiglia Stephen King e il suo libro su come scrivere). Ecco il consiglio di Ernest: “diciamogli pure di uscire di casa ed impiccarsi, perché scrivere bene è quasi impossibile. Poi, se qualcuno lo stacca dalla corda, allora il poveretto per il resto della sua vita dovrebbe costringersi a scrivere al meglio. Ma almeno avrà la storia dell’impiccagione con cui cominciare”.

 

E Ernest da chi ha imparato? Segue un elenco di scrittori (Tolstoj, Twain, Flaubert, Dostoevskij, Donne, Thoreau, Dante ecc.), compositori (Bach, Mozart) e pittori (Bosch, Bruegel, Patinier, Van Gogh, Giotto, Goya, Tintoretto ecc.) “è un ottima domanda e richiede un serio esame di coscienza. Ho fatto il nome di alcuni pittori, perché ho imparato a scrivere più da loro che dagli scrittori”.

 

Benedetto Hemingway, alla faccia di quella faccia da gremlin di Stephen King. Se la gioventù si forma su uno che sforna più libri di croissant il mio panettiere, stiamo freschi. Oggi faceva freschetto.

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Ecco un estratto dell’intervista pubblicata sulla rivista della Aletti Editore Orizzonti n. 32 (e riportata sul sito ad essa collegato “Parole in Fuga”), in cui la scrittrice Melissa P parla di libri (e poi dicono che i giovani non leggono, Melissa ha un sacco da fare ma trova il tempo anche per leggere). Perché le ho dedicato un post? Siamo alla frutta? Quello sempre (comunque la frutta fa bene), no, curiosità. Trattandosi di Melissa curiosità morbosa? No, cacchio, curiosità… butto un occhio sul mondo della scrittrice siciliana e non lo faccio attraverso il buco della serratura:

Il libro che sta leggendo?
La possibilità di un’isola, di Michel Houellebecq [però, ‘sti caz…]
Un classico che ancora non ha letto?
La coscienza di Zeno [Melissa puoi continuare a posticipare la sua lettura] 
Il primo libro che ha letto?
Madame Bovary [Sì, ma a quanti anni?]
Il libro che porterà sempre con sé?
Cent’anni di solitudine [giusto per non sentirsi mai sola]
Il libro che avrebbe voluto scrivere?
Rosemary’s Baby [c’è ancora tempo…]
Il libro più divertente?
Full of life, di John Fante [buonanotte, lo dici solo perché lo pubblica la Fazi editore, o ci credi davvero?]
Il più triste?
E non disse nemmeno una parola, di Heinrich Boll [ti sei riscattata alla grande]
Il più difficile?
Il dottor Zivago [altroché, difficile da reggere e pure il film…]
Il libro che non leggerà mai?
Moby Dick [e dagli una possibilità, tanti lo dicevano anche dei 100 colpi di spazzola]
Il libro maggiormente sottovalutato?
Young Adam, di Alexander Trocchi [difatti non lo conosco]
E quello maggiormente sopravvalutato?
Il Profumo, di Patrick Suskind  [sopravvalutato da chi?]
Un libro che dovrebbe avere un seguito?
Nessun libro dovrebbe averne uno [brava]
E quello da cui trarre un film?
Nessun film dovrebbe essere tratto da un libro [brava bis; brava tris se non avessi ceduto i diritti del tuo libro d’esordio per la realizzazione di un film tragicomico]
Il libro maggiormente utile ad uno scrittore esordiente?
On Writing, di Stephen King [sì, così King li spaventa e non scrivono più 😆 ]
E quello da sconsigliare ad uno scrittore esordiente?
Non saprei
Un libro inutile?
Troppi ce ne stanno [minchia, Ciccio, Cicciuzzo]
La citazione preferita?
«Hai paura?» «Sì. Di cosa?» Dialogo fra Henry Chinaski e un altro personaggio, in Compagno di sbronze
Il personaggio maggiormente ammirato?
Ursula Buendia, in Cent’anni di solitudine
E quello maggiormente detestato?
Mrs Umbridge, in Harry Potter [ma perché Herry Potter non ce lo mettiamo tra gli antipatici?]
Il luogo più strano in cui ha scritto?
Il garage di casa mia, dove tenevo il computer e dove ho scritto il primo romanzo [ma che domanda è? A Melissa poi]
Il prossimo libro che scriverà?
Un romanzo, non autobiografico e scritto in terza persona. È tutto ciò che posso dire. [Ce ne faremo una ragione].

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Ecco lo strumento che rivoluzionerà il fitness. Da oggi in poi “palestra” non sarà più sinonimo di fatica, dolore, noia… ecco, soprattutto sarà la noia quella che sparirà:

Ho casualmente visto in tv la televendita del miracoloso attrezzo. Niente di nuovo in fondo, perché il Joy Ride è semplicemente un cavallo meccanico: serve per tonificare gli addominali, rassodare glutei e coscie… ed è, ma questo lo aggiungo io, un potentissimo stimolante per partner con il desiderio sessuale assopito, se non apertamente in catalessi. Mi spiego: nella televendita sorridenti quanto appassionate (quanto appagate) modelle messe a cavacecio sull’attrezzo lo… beh, lo cavalcavano dando vita ad un movimento ambigaumente, promiscuamente, equivocamente, sensualmente ipnotico, roba che per quanto il sottoscritto sia personcina equilibrata mi è risultato impossibile staccare gli occhi da quell’ondeggiare i cui riferimenti ad altro tipo di attività fisica (molto più appagante), che in genere si pratica in camera da letto, erano evidentissimi. Piacevolmente evidenti. Tanti e tali sottintesi che verrebbe da pensare che il Joy Ride, più che un attrezzo da palestra, sia un articolo in vendita nei sexy shop.

Se le palestre italiane si doteranno del Joy Ride prevedo un incremento di iscrizioni; prevedo che oltre ad iscriversi le persone poi la frequenteranno realmente la palestra (specie i maschietti “l’hai vista la sventolona bionda quando usa il Joy Ride? E la brunetta tutta tette?”):

“caro dove vai?”
“in palestra amore”
“anche questa sera? Che carino che sei, la fai per me, così che le mie amiche mi invidino perché ho un fidanzato in forma”
“certamente cara, lo faccio per te”.

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Maison Ikkoku è stato prima manga di Rumiko Takahashi (quella di Lamù, Ranma ½, Inuyasha) poi cartone. Ogni volta che tiro fuori una videocassetta e me ne guardo una puntata, mi lascia secco sulla poltrona. Essendo io un dannato snob pignolo in campo d’arte (e Maison Ikkoku è arte, non mi vergogno ad affermarlo e sottoscriverlo) non è mica facile. Mi siedo muto, trattengo il fiato, sospeso, pronto solo a riempirmi di immagini e musica, pronto a far mia una delle più belle storie mai pensate, scritte, disegnate, rappresentate e poi trasportate su video. Quanti passaggi con il concreto rischio di annacquare la storia, di farla scivolare verso pericolosi binari di ovvietà, col cavolo. La trama ha come filo conduttore la travagliata storia d’amore tra lo sfigato Godai, ingenuo fino alla stupidità, prima studente eternamente fuori corso, poi insegnante d’asilo (passando per un tirocinio da incubo in un liceo femminile), classico perdente a cui però non si può non volere bene, e la giovane vedova Kyoko (di qualche anno più grande) che gestisce la casa-pensione (da cui il titolo) in cui lo sfigato vive assieme ad altri personaggi al limite dell’assurdo (Ichinose con il figlio e un marito che è una specie di ombra; Akemi Roppongi disinibita rossa tutto pepe e sakè, e il misterioso Yotsuia scroccone parassita che vive alle spalle di Godai). Dicevo, la storia d’amore (i due si amano ma non osano dichiararsi, o fare quel passo in più, sempre trattenendo i sentimenti, specie Kyoko, Godai molto meno) si regge e si trascina tra mille equivoci, cose non dette, mai del tutto chiarite, sentimenti mai del tutto elaborati, gelosia, e ogni volta che le cose sembrano andare per il verso giusto, ecco l’imprevisto. Situazioni surreali ai limiti della follia, sconfinato divertimento e, sotto-sotto, un po’ di rabbia: maledetti casinisti ma volete mettervi insieme, che ci vuole? La trama è strutturata su di un’alchimia inafferrabile, un equilibrio segreto, di quelle cose che neppure chi l’ha scritta e disegnata saprebbe spiegare (credo che la Takahashi sia la prima a stupirsi del risultato finale), quelle storie di cui uno non è autore ma una sorta di tramite per farle venire fuori, storie che appartengono a tutti. Maison Ikkoku si svolge tra divertimento, situazioni più serie, tenerezza, idiozia, e il dramma sempre toccato con sensibilità, mai sbattuto in faccia, mai retorico, mai compiaciuto da lacrima facile (roba stomachevole da fiction italiana), ti conquista, ti fa sorridere, ti commuove, ti rende partecipe, ti fa sentire vivo. Ti fa pensare che se una cosa del genere esiste allora la vita non è poi una merda, e se anche non esistesse, finché si scrivono storie come questa, beh, la terra non è proprio l’inferno di Shopenhauer. C’è persino il concreto rischio che ti dia un sentore di speranza, roba da matti.

 

 

Questo cartone è un piccolo gioiello. Ha una colonna sonora calibratissima che sottolinea ogni scena in modo evocativo, composizioni dal tipico impianto ad ampio respiro della tradizione giapponese, con quella malinconia distillata che dopo averle ascoltate ti verrebbe voglia di buttare la braccia al collo anche al primo che passa, perché l’accompagnamento musicale ti fa sentire il calore umano, ne evoca il tepore e tu vorresti che si propagasse in te, che ti appartenesse, che qualcuno fosse lì ad abbracciarti. Ma la musica sa anche sdrammatizzare in modo ironico.

Bella la rappresentazione di Tokyo, è incredibile la regia: se cercassi tracce della pesante eredità di Ozu, beh, Maison Ikkoku direi: certe sospensioni, certe cesure, certi riferimenti, certe citazioni, certi poetici particolari così espressivi ed essi stessi narrativi (la lattina che scorre via nel fiume ingrossato dalla pioggia, il lampeggiante blu e rosso del passaggio a livello su un’inquadratura fissa con sotto i rumori della città, il treno che passa è solo un sibilo di traversine che si piegano), e poi la neve e la pioggia, la natura presenza complementare che pulsa nella città, sottolineature simboliche (i due innamorati sotto un unico ombrello), i bagni pubblici, le terme, il mare e l’anguria, i 108 rintocchi di campana la notte dell’ultimo dell’anno, i kimono, l’incenso che brucia, luce ed oscurità, la nota straziante della trombetta del venditore di ghiaccio che passa in bici la sera e non si vede neppure, e pensi sia uno spirito che informa i vivi che il sole sta tramontando “affrettatevi alle vostre case”, intimità, la birra, la soba e il ramen nei precotti, il cestino preparato da Kyoko, la frutta, gli esami, il caldo, gli esami con il caldo, il freddo, gli esami con il freddo “devo studiare, non ce la farò mai!” occhio a non inciampare! i baci, i petali di ciliegio, è già primavera? Sì… un’altra. Ricordo una scena drammatica con Kyoko sulla strada a metà di una collina, Kyoko è a destra nell’inquadratura, è sera e si stanno accendendo le luci dei lampioni (a sinistra), lo fanno nel silenzio, ma non contemporaneamente bensì in sequenza partendo dal fondo, uno alla volta, e la luce prima di uscire vacilla come se faticasse, come se sentisse che il momento è difficile… ritrosia, pudore. Che classe, è nel particolare che si costruisce la perfezione. Maison Ikkoku tocca vertici di liricità che uno non si aspetterebbe in un cartone e nello stesso contesto, due secondi dopo, esplode la gag informata di una comicità sempre sorprendente e si ride. Maison Ikkoku ti tiene emotivamente inchiodato. E alla fine? Beh, tutti i nodi vengono al pettine e il pettine li appiana senza strappi: un generale lieto fine per tutti, e che cazzo ogni tanto ci vuole pure quello, i pezzi del puzzle vanno al loro posto, ognuno trova la sua collocazione ed è quella giusta. Maison Ikkoku è la rappresentazione del riscatto degli umili, non c’è boriosità, non c’è compiacimento, niente superpoteri per supereroi così vuoti e distanti, niente spacconerie, niente sovrastrutture intellettualoidi, il bello è che in fondo si tratta di una storia comune, di persone comuni che vivono e vivranno vite comuni tra gioia e difficoltà, vite che trovano riscatto e senso nell’amore. Ogni tanto è bello sperare che sia così, che le cose vadano come in Maison Ikkoku in cui il dramma è riassorbito nella felicità, nella semplicità con cui si affrontano le difficoltà: un passo alla volta, insieme, e nella forza che ci si mette nel fare quel passo per non farsi schiacciare, per non abbandonarsi al rischio di auto commiserarsi, voluttà del compatimento. Il dolore non viene cancellato (sarebbe ingenuo e sarebbe scopertamente finto) ma reso sopportabile, reso parte inscindibile di un’esistenza che vale la pena di essere vissuta, anche solo per abbracciare idealmente una Kyoko o un Godai e guadare la neve che scende dolcemente da dietro i vetri di casa, magari in silenzio accordando il nostro respiro con quello del partner. Ancora insieme.

 

 

Rumiko Takahashi non ha più scritto niente del genere (non lo ha fatto nessuno probabilmente), l’ho detto, questa storia non le apparteneva veramente, non era sua, lei ne è stata sensibile ed intelligente tramite, questa è roba di tutti, un dono fatto da… boh.  Cinque minuti, mi bastano cinque minuti per prendere una boccata d’ossigeno, per tirarmi su. Se perdersi in un cartone, se fantasticare andando ad un passo dal sognare ad occhi aperti escludendo il mondo è peccato, io marcirò all’inferno, non fa differenza, comunque starò in buona compagnia, comunque lì sono destinato. Se per una volta godo sbrodolando melassa, fanculo, i denti che si cariano sono i miei. Al di là di tutto Maison Ikkoku è una di quelle storie che, dopo averla letta e vista e metabolizzata, nessuno potrà portartela via, diventa parte di te, la si custodisce gelosamente e la si tira fuori quando è necessario. Quando se ne sente il bisogno. Chiuso.

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Le prede:

 

La leonessa: preda? Pare un paradosso, e lo è. Occhio alla leonessa (può essere anche uomo) si finge preda ma in realtà è lei/lui a condurre il gioco. È anche vero che i morsi a tradimento non fanno sempre male, anzi, in certe situazioni sono pure intriganti.

 

L’elefante: materno/a, disponibile, simpatico/a, c’è tanto, ma proprio tanto da avere da lui/lei. In genere hanno un attributo fisico che li distingue: un gran bel fondoschiena.

 

La vacca della prateria: ed uso il termine vacca (anche uomini) perché mi pare ovvio cosa esso sottintenda: facile da catturare ma dà poche soddisfazioni a livello emotivo. È in genere il/la più appariscente, chiassosa, quello che balla più scatenato… in fondo se non si buttassero via, se riconsiderassero il loro look, gli mancherebbe un niente per essere leoni cacciatori, ma hanno l’indole della preda, a loro piace essere conquistati da una, due, tre, quattro (e via così)… cacciatori.

 

La gazzella: lasciar perdere, puoi correre finché vuoi ma non la prenderai mai. Terribilmente timidi, qui ci vorrebbe il ghepardo, ma di ghepardi tra i cacciatori ce ne sono pochissimi e il ghepardo in genere ha un grande spunto all’inizio (accetto la sfida!) ma si spompa subito. Piuttosto servirebbe una tartaruga: vai bella gazzella, corri finché ti pare che prima o poi arrivo. Per arrivare la tartaruga arriva, ma quando si arriva sono passati ormai vent’anni, addio mia giovinezza.

 

La poiana: terrrrrrribbbbbile, quella/o che se dici una mezza parola sbagliata ti cavano gli occhi a colpi di becco. Poiana posso dirti una parola? Ma vaffanculo, va…

 

La giraffa: come la gazzella sono imprendibili, quelle/i che camminano sollevati dall’aura di perfezione (che loro credono d’avere) un metro sopra i comuni mortali. Se la gazzella lo fa per timidezza, loro per vomitevole spocchia. Il loro motto è “tiriamo su il collo per non insozzarci con la vostra meschinità di omuncoli banali” figuriamoci, non vogliono neanche sentirlo il puzzo della savana. Te lo tirerei io il collo tacchina/o!

 

La scimmia (quelle vere sono piuttosto rare, ne esistono degli ibridi): ridono sempre (allegri di natura non superficiali o sciocchi) se fai una battuta sai che rideranno, per piacere o per pietà ma lo faranno. Se tu sei stanco di ballare lo sono anche loro, se vai al bagno magari ti accompagnano, nel senso di: fanno un pezzo di strada con te, se devi spostare la macchina “è una rottura vengo anch’io così intanto mi racconti di…”; se bevi loro bevono, se hai voglia di un gelato “perché no”, e non lo fanno per annullarsi, ma per il semplice piacere di stare insieme, di fare le cose insieme (le scimmie sono anche propositive). Se chiedi un piacere te ne fanno due. Ti senti bene con una scimmia, ti senti importante e gratificato anche se non sei importante, e hai sempre voglia di fare anche tu del bene agli altri, potremmo dire che ti rendono una persona migliore. Con loro hai voglia di lasciarti andare, di essere onesto, di mettere in gioco nel rapporto tutto/a te stesso/a. E quel sorriso poi… e come sono carine anche se imbronciate… ah, le scimmie. Bisogna piuttosto stare alla larga dai Gorilla: il buzzurro/a da sbarco, niente misura (rutto libero e commenti pesanti ad esempio), non esistono gli altri se non come tramite per il loro piacere, se ne escono continuamente con idiozie e volgarità a raffica che ti mettono in imbarazzo, il loro scopo è dominarti completamente e lo fanno nei modi più beceri ed umilianti (ed il dramma è che molti/e di loro non lo fanno per cattiveria, ma in assoluta buona fede).

 

Il colibrì (sono i miei preferiti): quelle prede di cui nessuno si accorge perché in genere se ne stanno in un cantuccio, nessuno li guarda, nessuno darebbe loro dieci denari (e neanche trenta) e non perché siano brutti (in genere si attestano sulla categoria del carino, ma se gli dai una sistematina fioriscono come i fiori che tanto amano, comunque è sbagliato agghindarli, li si snatura in modo idiota per trasformarli in ciò che loro sentono di non essere, anche se lo sono), sono schivi, non fanno la ruota o la danza dell’amore perché per loro in un rapporto l’aspetto fisico conta fino ad un certo punto. Ecco sono piccoli, sì, ma sono dotati di un ricco mondo interiore grande quanto l’universo, che è esaltante scoprire. Bisogna però avere l’intelligenza o la sensibilità per farlo.

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